Maria Festa in conversation with Caryl Phillips
October 7, 2021
Biografia:
Caryl Phillips è uno degli autori postcoloniali anglofoni di maggior rilievo oltre ad essere, per le sue origini Afro-caraibiche, una voce di spicco della Black British Literature.
Phillips nasce nell’isola di Saint Kitts, uno stato insulare dei Caraibi. Nell’estate del 1958, all’età di quattro mesi con i suoi genitori raggiunge i parenti che si erano trasferiti tempo prima nella cosiddetta ‘Mother Country’. Trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Leeds, nella contea dello Yorkshire, e nel 1979 si laurea in letteratura inglese al Queen’s College di Oxford.
Phillips è un autore poliedrico. Sebbene la letteratura sia il suo interesse primario, ha fatto ugualmente incursione in altri mondi come quello del teatro e mass media (giornali, cinema, radio, televisione). La sua cospicua e variegata produzione letteraria e artistica annovera romanzi, saggistica, antologie, radio drammi, sceneggiature televisive, teatrali e cinematografiche, documentari, oltre agli articoli di taglio letterario per riviste di settore – quali, ad esempio “Wasafiri Magazine” –, o per testate giornalistiche rivolte ad un vasto pubblico come il quotidiano inglese “The Guardian” e non ultima la sua incursione nel mondo digitale con il progetto http://abendintheriver.artangel.org.uk/
La sua carriera di scrittore è costellata, sin dagli esordi, di riconoscimenti letterari prestigiosi oltre al conferimento di ben sei Lauree Honoris Causa. Phillips è anche uno stimato e rinomato docente universitario e nella posizione di visiting professor ha insegnato in prestigiose università in Europa, Africa, Nord America, Caraibi, India e Singapore. Attualmente insegna letteratura inglese e scrittura creativa all’università di Yale a New Haven, nel Connecticut.
Per la bibliografia completa, il dettaglio della sua produzione artistica e dei riconoscimenti ricevuti si rimanda al sito ufficiale dell’autore http://www.carylphillips.com/
Sulla narrazione di Caryl Phillips:
Data la cospicua produzione letteraria e artistica dell’autore non si può qui concentrare in poche righe e in maniera esaustiva l’introduzione e l’analisi dei suoi lavori. Però, in questo spazio, si vogliono mettere in evidenza alcuni tratti caratteristici della sua produzione scritta con l’auspicio di stuzzicare la curiosità del lettore digitale del sito Open Literature sull’autore e per estensione sulla letteratura postcoloniale anglofona.
Il viaggio inteso come l’atto di spostarsi da un luogo ad un altro, oltre ad essere una delle tematiche principali dei lavori di Phillips è anche un “segno distintivo” della sua vicenda personale, quasi a voler testimoniare e manifestare quel senso di irrequietezza – conseguenza di un’identità frammentata – e quella continua sensazione di non appartenenza, di non sentirsi mai completamente a casa:
I am seven years old in the north of England; too late to be coloured, but too soon to be British. I recognise the place, I feel at home, but I don’t belong. I am of, and not of, this place. […] Who am I? How do I explain who I am? How do I come to be here?[1]
A ventidue anni si affida alla pratica del viaggio per cercare, raccogliere, accostare e congiungere i frammenti di un’identità e appartenenza ibrida. Con l’intento di riunire i frammenti della propria identità, Phillips torna nell’isola St. Kitts (il punto di origine da dove è cominciato il suo viaggio) ma, il senso di appartenenza, nonostante si trovi fisicamente sul suolo natio, continua a non affiorare:
I left this island twenty-two years ago as a four-year-month-old infant. I look now at the island of my birth. I recognise the place, I feel home here, but I don’t belong.[2]
Va anche detto che il viaggio, oltre a rappresentare la ricerca personale del proprio punto di origine e delle proprie radici al fine di riconciliarsi con la propria identità, è anche una delle tematiche principali presenti nella sua narrazione scritta, orale e visiva. In The Atlantic Sound (2002), per esempio, Phillips sviscera il tema del sentirsi a casa nell’accezione di identità e appartenenza che nella lingua inglese vengono accorparti nel sostantivo home. All’interno del volume, nella parte dedicata al viaggio in Africa occidentale, Phillips riporta un aneddoto accaduto sull’aereo che lo portava in Ghana. Il suo vicino “Ben” cerca di intavolare l’usuale conversazione di circostanza esordendo con una domanda apparentemente innocua ma che riattiva nell’autore un tornado di emozioni:
‘Where are you from?’
The abruptness of his whisky-scorched question shakes me out of my reverie. The bullet-man appears now to be fully libated and eager for conversation. ‘Yes please, my friend. Where are you from?’
The question. The problem question for those of us who have grown up in societies which define themselves by excluding others. Usually us. A coded question. Are you one of us? Are you one of ours? Where are you from? Where are you really from? And now, here on a plane flying to Africa, the same clumsy question. Does he mean, who am I? Does he mean, do I belong? Why does this man not understand the complexity of his question? I make the familiar flustered attempt to answer the question. He listens, and then spoils at all. ‘So, my friend, you are going home to Africa. To Ghana.’ I say nothing. No, I am not going home.[3] (italics in the original)
L’identità frammentata e il senso di non appartenenza manifestati, esposti e denunciati dall’autore nella sua produzione letteraria e artistica sono una conseguenza del middle passage, ovvero lo sradicamento forzato di milioni di africani costretti a una lunga e disumana traversata dell’Oceano Atlantico per essere venduti, utilizzati e sfruttati come forza lavoro nelle piantagioni americane sotto il dominio dell’impero britannico. Una successiva eredità del middle passage è la questione della razza che, in parallelo o in sovrapposizione alla tematica del viaggio inteso come ricerca di identità e appartenenza, costituisce uno dei pilastri della narrazione scritta e visiva di Phillips.
Il concetto di razza, del tutto discutibile, nonostante l’origine arcaica del sostantivo, viene largamente impiegato nel diciannovesimo secolo, in pieno apogeo dell’espansionismo territoriale delle potenze europee oltre oceano, per giustificare la riduzione in schiavitù delle popolazioni africane forzatamente sradicate dal loro paese di origine. Ad avallare l’uso improprio del sostantivo razza, in ambito antropologico tra l’800 e primo 900 si sviluppò il concetto di razze umane, ovvero gruppi di popolazioni distinte da particolari caratteristiche fisiche come il colore della pelle, il colore e il tipo di capelli, forma del viso, degli occhi, e via dicendo. Tali distinzioni applicate alla specie umana hanno costituito il presupposto pseudoscientifico per una concezione delle razze umane come gruppi di individui isolati gli uni dagli altri da specifiche diversità etniche e, cosa ancora più grave, da porre in rapporto gerarchico secondo la contrapposizione di presunte razze superiori con presunte razze inferiori.[4] Questo assunto di una gerarchia razziale viene corroborato anche da teorie sviluppate in campo medico. Un esempio lo si trova all’interno del Report on the Diseases and Physical Peculiarities of the Negro Race scritto e pubblicato nel 1851 da Samuel Adolphus Cartwright (1793-1863). Cartwright, medico e schiavista, sosteneva che:
[Negroes’] black blood distributed to the brain chains the mind to ignorance, superstition and barbarism, and bolts the door against civilization, moral culture and religious truth.[5]
In aggiunta, il “sangue nero”, sempre secondo Cartwright, oltre ad essere la causa dell’inferiorità delle popolazioni africane era anche la causa di due tipi di malattia
“drapetomania”, or the disease causing slaves to run away and “dysaesthesia aethiopica”, a kind of mental lethargy that caused the negro ‘to be like a person half asleep’ (what slaveholders more commonly identified as “rascality”). [However] the forced exercise, so beneficial to the negro, is expended in cultivating […] cotton, sugar, rice and tobacco, which, but for his labor […] go uncultivated, and their products lost to the world. Both parties are benefitted – the negro as well as his master.[6]
Con questa breve digressione si intende porre l’accento sulla manipolazione del concetto di razza solo per giustificare la resa in schiavitù di popolazioni considerate impropriamente inferiori. Ancora oggi, nonostante sia assodato che la razza è un costrutto meramente ideologico, gli esseri umani con il colore della pelle non bianca sono tutt’oggi discriminati e oggetto di pregiudizio.
The Nature of Blood (1997) è uno dei romanzi più complessi ed emblematici di Phillips e probabilmente il più idoneo, in questo contesto, a introdurre alcune delle tematiche trattate dalla letteratura postcoloniale anglofona. La narrazione di The Nature of Blood copre un arco temporale che va dal quattordicesimo al ventesimo secolo e ingloba quelli che possono essere definiti i tratti distintivi della letteratura postcoloniale: riscrittura del canone letterario inglese, intertestualità, razza, razzismo, schiavitù, diaspora, centro-periferia, l’altro, discriminazione, emarginazione, la dicotomia belonging-longing, identità, alienazione, esclusione dalla storiografia occidentale.
The Nature of Blood può essere anche definito un romanzo storico. Seppure in maniera frammentata e discontinua, l’autore ricostruisce il passato coloniale europeo caratterizzato da una visione eurocentrica del mondo. Indubbiamente una visione auto-referenziale e miope che ha sistematicamente ignorato l’esistenza di altre culture e civiltà. L’impero britannico viene considerato senza mezzi termini l’artefice di tale visione.
A testimonianza della complessità della trama, ma allo stesso tempo dell’acutezza di chi come Phillips è stato escluso dalla storia occidentale, l’orrore dell’olocausto viene paragonato alle forme di schiavitù in essere nelle piantagioni americane colonizzate dall’impero britannico; la questione della razza viene trattata mettendo in parallelo e/o in sovrapposizione la diaspora africana e quella ebraica; la storia non è una cronologia lineare di date e eventi, al contrario la storia dell’umanità è formata da elissi che si incrociano e/o sovrappongono dando origine a una serie di eventi che si ripetono nel tempo e che influenzano, il più delle volte negativamente, quelli successivi. Inoltre, i personaggi che si incontrano nella narrazione sono il prototipo dell’essere umano considerato inferiore. Essi vivono ai margini della società e/o dell’impero e sono caratterizzati da un’identità frammentata e un forte senso di non appartenenza. Tali stati d’animo vengono esternati dai protagonisti con espressioni quali:
“I am a foreigner”[7]
“I was clearly not one of their own”[8]
“First we will teach you the language”[9]
“Have you seen the ugly housing at the edges of the city where we live?”[10]
“Dragging these people from their primitive world into this one […] They belonged to another place”[11]
Brevi indicazioni sul podcast e l’intervista:
Sempre con l’intento di stimolare la curiosità del lettore di Open Literature, in questo spazio digitale si è deciso di postare l’estratto di un radiodramma – Writing Fiction – scritto da Caryl Phillips per la BBC Radio 4 nel 1991, creando così un esperimento transmediale. La sceneggiatura del radiodramma è stata tradotta in italiano con il titolo “A scuola di scrittura creativa” e narra le vicissitudini di uno scrittore famoso “Lawrence Wilson, Larry per gli amici” che da oltre sette anni è vittima della condizione di stasi creativa conosciuta come blocco dello scrittore. Dopo aver vissuto di rendita per anni, Larry è sull’orlo della bancarotta. Per ristabilirsi economicamente, accetta suo malgrado di insegnare scrittura creativa per un fine settimana in un’anonima scuola dispersa nella campagna inglese dello Berkshire. L’estratto che il lettore ascolterà ritrae l’ultimo giorno di corso. È stato scelto questo brano poiché, nello stile ironico che lo caratterizza, riproduce eloquentemente l’impronta stilistica di Phillips.
Infine il radiodramma è seguito dall’intervista a Phillips. L’autore ha generosamente accettato di commentare il radiodramma con la propria voce offrendo anche il suo personale punto di vista su altri temi toccati durante la conversazione.
[1] Caryl Phillips, “Introduction” in A New World Order – Selected Essay, Secker & Warburg, London, 2001, pp. 4-5
[2] Ivi, p. 3
[3] Caryl Phillips, “Homeward Bound” in The Atlantic Sound, Vintage, London, 2001 (2000), p.98
[4] Michael Banton, Jonathan Harwood, The Race Concept, Newton Abbot-London-Vancouver, David & Charles, 1975, p. 13
[5] Toni Morrison, The Origin of Others, Cambridge, Massachusetts, London, England, Harvard UP, 2017, p. 4
[6] Ivi, pp. 4-5
[7] Caryl Phillpis, The Nature of Blood, New York-Toronto, Alfred A. Knopf, 1997 p. 106
[8] Ivi, p. 129
[9] Ivi, p. 207
[10]Ivi, p. 210
[11] ibidem
We want to thank the author for allowing us to make his interview and radio drama available to Open Literature viewers and or listeners.